Le primavere arabe tra sogni e realtà

Di Riccardo Nissotti

 

Il 17 dicembre 2010 Mohamed Bouazizi, commerciante tunisino, si dava fuoco in segno di protesta per il sequestro delle proprie merci da parte delle autorità. L’episodio subito scatenava manifestazioni in tutto il paese. Nelle settimane successive un effetto domino coinvolgeva le popolazioni di altri paesi arabi. Il contagio rivoluzionario trovò terreno fertile dapprima in Egitto, poi in Libia e Siria, dove le agitazioni furono più violente che in Tunisia. I governi di questi stati avevano il comune denominatore di non essere stati eletti, di reggersi su un controllo poliziesco della società civile, di legittimare la propria forza grazie al sostegno dell’esercito e di essere al potere da decenni. Corruzione dilagante e inefficienza amministrativa completavano il desolante quadro di queste amministrazioni.

A scendere i piazza erano soprattutto giovani studenti (tra i quali molte donne) che lamentavano la mancanza di rappresentanza, diritti e democrazia delle istituzioni dei rispettivi paesi, e commercianti scontenti della crisi che aveva esasperato le già precarie condizioni di salute delle economie di quegli stati. La dilagante corruzione all’interno delle amministrazioni non poteva far altro che gettare benzina sul fuoco del malcontento. I media hanno insistito  moltissimo su quanto sia stato fondamentale il ruolo giocato dalle immagini – trasmesse soprattutto tramite i social network – nel diffondere il contagio rivoluzionario, arrivando a prospettare il passaggio di queste società, storicamente oppresse da regimi dittatoriali, verso forme di moderna democrazia rappresentativa.

Gli eventi intercorsi tra quel dicembre ed oggi hanno visto la cacciata di Ben Alì in Tunisia e di Mubarak in Egitto, la morte di Gheddafi in Libia e una perdita del controllo di buona parte del territorio di Assad in Siria, in seguito al divampare di una guerra civile. Specialmente nelle prime tre nazioni, le elezioni democratiche – con partecipazione anche femminile – che sono seguite alla destituzione delle rispettive dittature hanno fatto credere che il tempo della democrazia fosse finalmente giunto. La formazione del primo governo eletto tunisino avrebbe potuto segnare la strada da percorrere anche per gli altri paesi.

Nulla più che un’illusione.

Ad un anno dall’elezione del nuovo presidente Morsi, in Egitto sono divampate proteste per i suoi metodi di governo autoritari e per la promulgazione di leggi che hanno fatto adombrare lo spettro di una pericolosa deriva integralista islamica. I militari – appena estromessi dal potere – hanno colto la palla al balzo, cavalcando il malcontento popolare e destituendo con un colpo di stato reazionario il neo-presidente, per mettere in carica il fidato Al-Sisi.

In Siria la guerra civile non ha ancora avuto esito. Alla perdita del controllo di Assad su una buona porzione del paese non ha fatto seguito una sua estromissione e il comparire di formazioni estremiste islamiche ha fatto sì che l’Occidente volgesse le sue attenzioni alla questione.

In Libia in seguito all’uccisione di Gheddafi le elezioni hanno destato rosee aspettative, subito smentite dall’emergere di una conflittualità tribale, unita al sorgere, anche lì, di movimenti integralisti islamici. A ormai quattro anni dalla destituzione del rais, compiuta dai ribelli supportati da una coalizione occidentale che ha suscitato più di un dubbio sulle mire dell’Europa sul ricco paese nord-africano, la nazione è nel caos più totale, con due governi che si fronteggiano tra di loro e per ricondurre all’obbedienza territori controllati da signori della guerra locali e da formazioni islamiste.

La situazione del Medio Oriente è tuttora in evoluzione, ma nell’immediato futuro probabilmente non ci sarà molto di buono da aspettarsi. L’emergere dell’integralismo islamico non fa che aumentare le preoccupazioni degli osservatori stranieri, come anche il boom dell’immigrazione illegale. La paura che attacchi terroristici come quelli di Parigi, Copenhagen e Tunisi possano ripetersi fa balenare la possibilità dell’intervento di una coalizione occidentale per contrastare questi fenomeni sul nascere, sperando che questo possa portare la pace.

Alle radici di quello che – a ora – è un fallimento c’è stata anche l’inconcludenza dei vari movimenti rivoluzionari, che hanno saputo essere uniti quando hanno avuto un nemico comune da distruggere, ma si sono poi disgregati quando c’è stato da trovare l’accordo su quello che di nuovo si sarebbe dovuto costruire.

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