La prima stella: l’Italia e il Mondiale del 1934 (parte prima)

Di Fabio Figiaconi

In Italia tutti, dagli anziani fino ai ragazzi nati a ridosso del 2000, hanno ancora vivido il ricordo della vittoria italiana al mondiale del 2006 in Germania, con gli adulti che, in più, conservano anche il ricordo della vittoria della Nazionale al “mundialito” del 1982, le cui emozioni si possono ben riassumere con l’urlo di gioia di Marco Tardelli in occasione del gol in finale contro la Germania, vera e propria immagine iconica di un’epoca.

I mondiali tedesco e spagnolo appartengono perciò senza dubbio al “mito collettivo” italiano, essendo stati grandi eventi di massa vissuti in maniera trasversale da tutto il Paese, ai quali tuttavia ognuno di noi è in grado di associare dei ricordi personali, tornando indietro con la mente a dov’era al momento della finale, in compagnia di chi si trovava e soprattutto, si spera, ricordandosi in che modo abbia celebrato la vittoria degli Azzurri.

I due trionfi dell’82 e del 2006 sono quindi ben simbolizzati dalle ultime stelle che compaiono sopra lo stemma della Federazione italiana di calcio.

Accanto a loro, tuttavia, campeggiano ben altre due stelle che rappresentano i mondiali del 1934 e del 1938, i cui ricordi sono affidati solo a poche immagini sbiadite, e la cui storia è ignorata dalla maggior parte degli italiani, anche tra quelli più appassionati di calcio.

Questa “miniserie” di articoli vuole quindi ripercorrere l’epopea delle prime due nazionali Azzurre vincitrici di un mondiale e cercare di tracciare un quadro di quei protagonisti e di quelle imprese lontane affinché, per dirla come lo storico greco Erodoto, gli eventi passati non cadano col tempo nell’oblio, né manchi gloria alle imprese grandi e meravigliose.

La prima stella: l’Italia e il mondiale del 1934

Prima di trattare le imprese sportive della nazionale italiana nella coppa del mondo del 1934 è indispensabile fare una premessa: non è possibile parlarne senza prima tracciare un quadro della situazione politica italiana.

Siamo nel 1934 e da oltre un decennio il potere è in mano a Benito Mussolini.

Dopo aver superato una gravissima crisi politica nel 1925, che aveva quasi rischiato di estrometterlo dal governo, Mussolini era andato sempre più rafforzando in senso dittatoriale il suo potere senza più incontrare nel Paese resistenze di alcun genere.

La prima metà degli anni Trenta è infatti ricordata dagli storici come quella del “Fascismo trionfante”, con il partito e il Duce che godevano di un vastissimo consenso in Italia, nonostante la crisi economica che dagli Stati Uniti aveva toccato anche l’Europa.

A titolo di esempio del potere raggiunto dalle camicie nere negli anni Trenta, si possono citare i risultati delle elezioni che si tennero nel 1934, certamente pilotate e truccate, ma i cui risultati furono usati dagli organi del Fascismo come prova della fedeltà degli italiani alla causa del Duce: su oltre dieci milioni di votanti, infatti, solo quindicimila non espressero la fiducia al Partito Fascista.

Con alle spalle tali numeri, Mussolini era sempre alla ricerca di occasioni per esaltare l’ideologia fascista e la potenza della “razza italiana”, sia dentro i propri confini sia, soprattutto, all’estero.

Quale migliore occasione, dunque, di ospitare un mondiale in Italia, potendo così mettere in mostra sia l’efficienza organizzativa italiana sia la forza e la potenza della nazionale azzurra?

La candidatura italiana, con alle spalle il deciso sostegno di Mussolini, era stata presentata nel 1932 al congresso Fifa di Stoccolma, riscuotendo ampi consensi tra i delegati dei cinquanta Paesi iscritti all’organismo calcistico internazionale.

A favore dell’Italia giocavano la presenza di ben otto stadi abbastanza moderni e di ampia capienza, il deciso sostegno del governo fascista – che si era assunto l’impegno di sostenere economicamente la manifestazione – e, soprattutto, la mancanza di altri candidati che disponessero di requisiti analoghi a quelli dell’Italia.

Con tali dati alle spalle, la manifestazione fu giocoforza assegnata al Belpaese.

Ottenuta l’organizzazione dei mondiali, c’era ora da assemblare una squadra competitiva, capace di tradurre sul campo di calcio le aspirazioni egemoniche e la vocazione alla potenza che il Regime propugnava.

L’allenatore, o meglio, l’architetto al quale fu assegnato il gravoso compito era Vittorio Pozzo, torinese giramondo che già 22 anni prima, alle Olimpiadi di Stoccolma, aveva allenato la squadra azzurra. Egli si era successivamente ritirato dal mondo del calcio, trovando lavoro alla Pirelli, dalla quale era stato richiamato, dopo molte sue ritrosie, a dirigere la nazionale.

Lo “zoccolo duro” della squadra era costituito dai giocatori di quella Juventus che dal 1930 al 1935 avrebbe vinto ben cinque campionati di fila, record eguagliato soltanto dall’Inter post Calciopoli.

Numerosi anche gli oriundi (ben sei giocatori), alcuni dei quali avevano addirittura vestito la maglia dell’Argentina nella precedente edizione dei Mondiali e che quindi erano stati naturalizzati in tutta fretta in modo da poter giocare per l’Italia.

Il più significativo di essi era senza dubbio Luis Monti, nato a Buenos Aires e già protagonista con la maglia albiceleste nella finale del 1930 in Uruguay.

Soprannominato “armadio a due ante” per la stazza, è stato per certi versi un precursore del ruolo, oggi di moda, del regista davanti alla difesa, alle cui caratteristiche univa una durezza negli interventi difensivi degni del miglior “mediano picchiatore” dei giorni nostri.

Ma il vero “crack” della squadra era l’attaccante Giuseppe Meazza (a cui oggi è intitolato lo stadio di San Siro), punta di diamante dell’Ambrosiana-Inter, che da sei anni viaggiava stabilmente a medie di oltre 20 gol a stagione.

Per dare un’idea della sua forza in campo, basti citare il tecnico Pozzo, il quale diceva che averlo in squadra significava partire dall’uno a zero.

Scelti i giocatori, bisognava ora inserirli in uno schema di gioco efficace capace di far convergere gli spunti individualistici di ognuno dentro un sistema in grado di funzionare come una macchina perfetta.

In questo senso, la scelta di Vittorio Pozzo come allenatore fu la migliore possibile, perché il suo genio fu in grado di partorire un modulo che avrebbe assicurato all’Italia calcistica due mondiali e un’Olimpiade, oltre che a fornire la base tattica per molte squadre di club fino al secondo dopoguerra inoltrato.

L’idea di gioco del commissario tecnico italiano era relativamente molto semplice e prende il nome di “Metodo”, ma è conosciuta anche come “WW” per la disposizione degli uomini in campo.

La squadra scendeva in campo così: davanti al portiere, venivano schierati due giocatori chiamati terzini (in realtà di fatto dei difensori centrali), di cui uno doveva appiccicarsi all’attaccante avversario in posizione più avanzata, mentre l’altro aveva il compito di stare vigile a prevenire eventuali tagli in area degli altri attaccanti o dei centrocampisti avversari.

Davanti alla coppia di terzini, stazionava un trio di mediani, il cui compito consisteva, oltre ovviamente a far sentire la loro vigorosa presenza agli avversari che avessero avuto intenzione di transitare nella loro zona, nel recuperare palla per lanciare gli attaccanti verso la porta.

In particolare il mediano centrale – il già citato Luis Monti – aveva il compito di gestire e rimettere in gioco i palloni conquistati dalla difesa.

Davanti alla linea di mediani erano poi collocate due mezzali piccole e veloci, il cui incarico era di allargarsi, andare sul fondo e crossare in mezzo, oppure provare a innescare per vie centrali gli attaccanti.

Sulla linea d’attacco, infine, stazionavano ben tre punte, in grado di dialogare tra loro, di aspettare l’assist delle mezzali oppure, dato il talento di cui disponevano, di cercare il guizzo personale.

Il “Metodo”, detto in numeri uno schema 2-3-2-3, aveva il pregio di garantire un’eccellente solidità difensiva unita a una vastissima possibilità di soluzioni offensive.

Se apparentemente in un modulo del genere difesa e attacco possono apparire slegati, così non è, grazie alla geniale reinterpretazione di Pozzo del “regista davanti alla difesa” – ruolo che non a caso da qualche anno sta tornando di moda -, vero e proprio collante in grado di dare continuità alle fasi difensiva e offensiva.

Trovato il modulo adatto, non restava che attendere l’inizio del mondiale, per vedere tradotte sul campo le idee e le geometrie della formazione italiana.

In un clima di grande festa il 27 maggio prendeva così il via il mondiale del 1934, il primo a disputarsi in Europa.

La formula non prevedeva come adesso gironi di qualificazione, ma si partiva subito con otto scontri diretti: Spagna-Brasile, Austria-Francia, Ungheria-Egitto, Germania-Belgio, Svezia-Argentina, Svizzera-Olanda, Cecoslovacchia-Romania e Stati Uniti-Italia.

I grandi favoriti, oltre naturalmente agli italiani, erano la Cecoslovacchia e la “squadra delle meraviglie” austriaca.

Per la prima e, finora, unica volta, non era presente la nazionale campione del mondo in carica, l’Uruguay, che si era rifiutato di presentarsi in Europa per vendicarsi del gran numero di squadre europee che quattro anni prima non avevano voluto sobbarcarsi il lungo viaggio verso il Paese sudamericano al fine di prendere parte al mondiale lì organizzato.

Altra grande assente era la nazionale inglese, non iscritta alla FIFA, che si riteneva talmente maestra nel gioco del calcio da non aver bisogno di prendere parte a una competizione per affermare la propria superiorità.

Ad ogni modo, alle 16,30 in punto, Italia e Stati Uniti scesero in campo a Roma dando così inizio alla seconda Coppa del Mondo.

Il risultato, 7 a 1, fa ben intuire che divario ci fosse fra le due compagini, collocate agli antipodi del panorama calcistico.

Grande protagonista dell’incontro il centravanti azzurro Angelo Schiavio, autore di una tripletta.

Eccellente prima punta, il suo nome è iscritto a caratteri cubitali nella “hall of fame” del Bologna, club nel quale ha militato tutta la sua carriera; di lui si ricorda anche l’accesa rivalità con Luis Monti, con il quale rischiò più volte nel corso degli anni di venire alle mani, fino a che Vittorio Pozzo – anche in queste piccole cose si vede il talento di un allenatore – li obbligò a fare pace e a coesistere nella stessa squadra.

Superato agevolmente l’ostacolo Stati Uniti, l’entusiasmo in Italia iniziava a crescere, alimentato dal deciso sostegno di Mussolini alla Nazionale.

Qualche minuto prima del calcio di inizio, infatti, il Duce in persona era apparso sulle tribune dello stadio, sia per sfruttare una vetrina di portata internazionale sia anche per far sentire, attraverso la sua presenza, il suo sostegno alla squadra.

Dopo la facile vittoria contro la selezione americana, però, davanti all’Italia si veniva a parare il primo ostacolo serio: la Spagna, capitanata dal fenomenale portiere Ricardo Zamora.

Quella iberica era una nazionale dalla storia breve ma già gloriosa: vice campione olimpica ai Giochi del 1920 e unica, fino a quel momento, capace di battere i maestri inglesi per 4 a 3, a casa loro e nel gioco che essi stessi avevano inventato.

La viglia della partita era perciò carica di aspettative, tanto che gli atleti italiani ricevettero la visita del generale Vaccaro, fascistissimo presidente della F.I.G.C., che li spronò a dare il massimo l’indomani.

Il 31 maggio, allo stadio di Firenze, scesero finalmente in campo le formazioni di Spagna e Italia.

Davanti a 23 mila spettatori, le due squadre si diedero battaglia: a passare in vantaggio fu però la Spagna, con una deviazione sottoporta del centravanti Regueiro in seguito a un assist derivante da una punizione al limite dell’area.

A riportare il risultato in parità quasi alla fine del primo tempo ci pensò Giovanni Ferrari (allora centrocampista della Juventus e tutt’ora recordman di scudetti vinti in carriera, ben otto), che con un colpo di rapina a tre metri dalla porta scaraventò in rete il pallone che il portiere Zamora si era lasciato sfuggire o, secondo i giornali spagnoli, che aveva perso in seguito a una spinta fallosa di Schiavio.

Per quanto riguarda il seguito della partita, le parole di Vittorio Pozzo ne descrivono in modo magistrale lo svolgimento da lì fino alla fine: Dal punto di vista dello spettacolo l’incontro fu di una bellezza senza pari (…). Non vi fu un istante di requie, non si ebbe un attimo di pace per nessuno dei ventidue uomini in campo. Ad un’offensiva italiana ne seguiva una spagnuola, tutte spinte a fondo, tutte piene d’energia, tutte materiate di volontà. Si giunse al novantesimo minuto, si arrivò al centoventesimo che le squadre stavano ancora in piedi, logore e sfinite, ma dritte come due gladiatori saldamente avvinghiati, di cui uno non riesca ad abbattere l’altro.

Dunque l’incontro si era concluso in parità anche dopo i due tempi supplementari e, dato che il regolamento di allora non prevedeva la risoluzione della partita ai calci di rigore, l’incontro si doveva ripetere l’indomani.

Ben pochi giocatori erano però usciti indenni dai centoventi minuti, che secondo alcuni commentatori erano stati una vera e propria “mattanza”, con un gran numero di infortunati da entrambe le parti, causati da interventi al limite, e spesso al di fuori, del regolamento (un giocatore azzurro, Mario Pizziolo, addirittura abbandonò il campo con una frattura multipla alla gamba).

Il giorno successivo l’Italia dovette quindi sostituire quattro giocatori nell’undici iniziale, mentre la Spagna addirittura sette, tra i quali Zamora.

L’assenza del portiere spagnolo dalla ripetizione della sfida costituì un piccolo giallo ai tempi, perché sulla stampa francese si rincorsero le voci su un presunto intervento diretto di Mussolini presso l’ambasciata spagnola, affinché l’estremo difensore venisse escluso dalla formazione titolare.

Per dovere di cronaca, però, occorre segnalare che “La Stampa” di Torino del 2 giugno riporta che il giorno della partita di ritorno Zamora era tranquillo e sorridente in tribuna, e che mostrava a tifosi e giornalisti la gamba destra gonfia e la ferita che aveva all’altezza del ginocchio, parlando di come si fosse infortunato e ritenendo le sue contusioni come un imprevisto facente parte del gioco.

Ad ogni modo il giorno successivo, sempre a Firenze, le due formazioni scesero di nuovo in campo.

La partita fu ancora una volta equilibrata e venne decisa solo da uno spunto personale: un imperioso colpo di testa di Meazza all’undicesimo del primo tempo, su assist da calcio d’angolo battuto dall’oriundo Raimundo Orsi.

Da quel momento la partita si trascinò stancamente fino alla conclusione, visto che entrambe le squadre risentivano dell’immenso sforzo profuso nelle due sfide.

L’Italia aveva dunque vinto e si era guadagnata l’accesso alle semifinali, dove avrebbe trovato il “wunderteam” austriaco, probabilmente la squadra favorita per la vittoria del mondiale.

I problemi per gli Azzurri erano quindi appena cominciati.

(continua…)

(in copertina: Giuseppe Montanari, “Calciatori”, 1930)

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