Un grande patriota risorgimentale dimenticato: la storia di Giuseppe Pecchio

Di Gianluca Arlati

La storia del Risorgimento italiano è piena di figure di grandi uomini che, attraverso il loro contributo in vari ambiti (ideologico, letterario, militare) hanno lottato per la causa dell’unità d’Italia, e per questo sono giustamente ricordati e onorati. Anche coloro che non amano particolarmente la Storia ricordano certamente, se non la vita, almeno i nomi di tali personaggi: Silvio Pellico, Federico Confalonieri, Giuseppe Mazzini, Ugo Foscolo, Giuseppe Garibaldi e via dicendo. Accanto a queste figure maggiori, gli storici del Risorgimento nel corso degli anni hanno dato il via a una serie di ricerche e libri anche su figure di minore importanza, ma che senza dubbio hanno dato anche loro il proprio personale contributo all’unità italiana. Nonostante il suo amore per la causa italiana e le sofferte vicende personali ad essa legate, un uomo sembra essere stato totalmente dimenticato: Giuseppe Pecchio.

Giuseppe Pecchio, milanese di nascita, dopo aver studiato tra Como e Pavia (avendo come compagno, tra gli altri, Alessandro Manzoni) entrò giovanissimo nell’amministrazione burocratica del Regno D’Italia. In virtù dei suoi studi di economia, lavorò come assistente presso il Consiglio di Stato per le sessioni delle finanze e dell’interno dal 1810 al 1814, scrivendo anche un saggio storico proprio sull’amministrazione finanziaria di quel periodo, nel quale analizzava le imposte dirette e indirette, le modalità di riscossione, il loro utilizzo nelle spese pubbliche e gli effetti sui contribuenti. Nel 1814, in seguito all’occupazione militare del Regno d’Italia da parte dell’Austria, perse il suo incarico ed entrò nella Congregazione provinciale di Milano, anche se con poteri esclusivamente formali, e vi rimase fino 1821, anno in cui prese parte ai moti rivoluzionari italiani, il fallimento dei quali lo costrinse ad abbandonare per sempre il Paese, al fine di evitare l’arresto e la condanna. Durante l’esilio visitò diversi Stati europei e per ognuno di essi scrisse veri e propri reportage giornalistici ante litteram: tra questi, Sei mesi in Spagna, Tre mesi in Portogallo e le Osservazioni semi-serie di un esule sull’Inghilterra. Proprio l’Inghilterra, che a quel tempo era il motore dell’economia internazionale e il Paese più industrializzato d’Europa, fu per lui come una seconda casa. Qui frequentò i personaggi più in vista della società, insegnò lingua e letteratura italiana presso il collegio di York, scrisse perfino una Storia critica della poesia inglese – a testimoniare il suo affetto per la nazione – e incontrò Filippa Brooksbank, la sua futura moglie, con la quale si trasferì a Brighton, nel sud, fino alla morte, nel 1835.

Giuseppe Pecchio però, oltre che economista, era anche, e soprattutto, un giornalista. Collaborò infatti al “Conciliatore”, il giornale bisettimanale che uscì a Milano dal 1818 al 1819. Il Conciliatore è ricordato dagli storici come uno dei primi tentativi di rinascita culturale italiana dopo la riconquista austriaca del Nord Italia; finanziato dal nobile Federico Confalonieri, si proponeva di trattare argomenti molteplici (letteratura, poesia, politica, storia, scienze applicate) secondo un punto di vista moderatamente liberale e romantico; un gesto molto coraggioso, se si considera l’opprimente censura che gli austriaci imponevano a Milano (il giornale, infatti, venne chiuso dopo poco più di un anno di vita). Con ben 43 articoli, Pecchio fu uno dei principali artefici dell’effimero successo del Conciliatore. Essi trattavano prevalentemente argomenti di natura economica e didattica. In particolare, elogiava spesso il metodo del “mutuo insegnamento”, già affermato in Inghilterra e presente anche in alcune scuole italiane; era un metodo particolare d’insegnare, che mirava alla diffusione dell’istruzione in una maniera capillare: il maestro non insegnava a tutti gli studenti simultaneamente, ma inizialmente solo a quelli più capaci, i quali avrebbero poi ripetuto la lezione agli altri allievi. Per Pecchio la questione della cultura e i modi di diffusione della medesima erano di importanza fondamentale per il futuro dell’Italia: solo la cultura poteva infatti porre le basi per una democrazia solida, basata sul consenso e la partecipazione volontaria e consapevole.

Tutti i suoi scritti erano poi caratterizzati da uno stile “semi-serio” che gli permetteva di trattare anche i fatti storici di natura più ostica, come quelli economici, in maniera comprensibile a tutti, e questo era proprio l’obiettivo del giornale per il quale lavorò: una cultura democraticamente divulgata e democraticamente accessibile, secondo il fondamentale principio del “docere delectando”, cioè insegnare e informare in modo semplice e piacevole. Un esempio lampante di questo spirito di democrazia culturale viene proprio dalla vita di Pecchio, che partecipò a una missione di aiuti finanziari alla Grecia (a quel tempo impegnata nella lotta per l’indipendenza dall’Impero Ottomano) effettuata dal comitato filellenico di Londra. I finanziamenti non erano però finalizzati all’acquisto di armi, bensì all’apertura di scuole che utilizzavano il già citato metodo didattico del “mutuo insegnamento”. L’idea di base, dunque, era che solo un’istruzione diffusa avrebbe portato a una libertà effettiva, che insomma un libro fosse meglio di un fucile. Come abbiamo visto nei paragrafi precedenti, la figura di Giuseppe Pecchio si presenta come estremamente innovativa per i suoi tempi, specie per quanto riguarda la sua continua sottolineatura dell’importanza fondamentale di acculturare il maggior numero possibile di persone in maniera capillare e per la sua incrollabile fede in una democrazia ad ampia partecipazione popolare.

Ma perché allora, considerata l’eccezionalità e l’indubbia importanza del personaggio, nessuno si ricorda di lui? Perché è uno dei pochissimi personaggi dell’epopea risorgimentale ignorato dai più? I motivi sono sostanzialmente due: uno di natura politica e uno di natura “letteraria”, frutto di una macroscopica incomprensione. Per quanto riguarda il primo, la colpa va addossata al conflitto interno al movimento liberale del primo Ottocento, che divideva i cospiratori in democratici, cioè coloro che aspiravano a un modello costituzionale a partecipazione popolare, com’era quello spagnolo (tra questi c’era Pecchio), e in aristocratici, i quali invece erano favorevoli alla conservazione dell’elemento aristocratico e dei privilegi di casta (di questi faceva parte Confalonieri). Sfortunatamente per Pecchio la storiografia si rifece a quest’ultima corrente, condannandolo a una damnatio memoriae che durò fino alla fine degli anni ’70 del Novecento. Considerando poi che in seguito al fallimento dei moti del ’21 egli abbandonò l’Italia per evitare l’arresto, non ebbe nemmeno la possibilità di difendersi dalle calunnie che Confalonieri pronunciò a suo danno durante gli interrogatori da parte degli austriaci, screditando e facendo così dimenticare negli anni successivi la sua figura. Il secondo motivo dell’oblio, quello “letterario”, è dovuto alla pubblicazione della Vita di Ugo Foscolo (1830). Con questa biografia l’autore voleva rendere omaggio all’amico poeta, che come lui era stato in esilio in Inghilterra, ed elevarlo a modello d’amor patrio, nella speranza che suscitasse nei suoi compatrioti l’entusiasmo necessario a scuotere il dominio straniero. Ma il “partito foscoliano” esistente all’epoca, formato da amici e parenti di Foscolo, pronti a difenderlo contro ogni tipo di accusa o offesa, fraintese lo stile “semi-serio” dell’opera, condannandolo quasi come sacrilego, se accostato alla figura di Foscolo, la quale, dopo la sua morte, era diventata quasi sacra e intoccabile. Pecchio, che invece rifiutava ogni forma di divinizzazione, col riportare anche le debolezze e i vizi privati del poeta, non voleva certo recargli danno; voleva semplicemente riportare la realtà dei fatti, diffondendo l’immagine di un Foscolo più “umano”, così che anche chi non si intendeva di letteratura avrebbe avuto la possibilità di apprezzarlo o meno, invece di accettare passivamente un mito imposto e artificiale.

In conclusione, considerati i fatti qui esposti, Giuseppe Pecchio andrebbe riesumato dal dimenticatoio della Storia, in quanto fu protagonista della sua epoca e in qualche modo anche del nostro tempo: egli, infatti, fu uno dei primi esempi di democratizzazione della cultura e della produzione letteraria, che altro non è se non il principio alla base dell’informazione moderna.

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